Corriere del ticino
L’INTERVISTA / Gabriele Balbi
Forse non ci avevate mai pensato, ma anche la cosiddetta «rivoluzione digitale» nella quale, a quanto pare, siamo tutti immersi da decenni è prima di tutto un racconto, una narrazione spesso eroica, più raramente critica, di una nuova era di successi scientifici e di prosperità planetaria. In realtà è un fenomeno descritto, prospettato e raccontato dal suo interno; anzi, dai suoi promotori visionari e miliardari. (E perciò non proprio disinteressati quando parlano del mondo migliore che, grazie a loro, verrà). Non a caso si autodescrivono come protagonisti positivi, guru e profeti di questo nuovo sol dell’avvenire, trascinandosi dietro come pifferai magici il mondo politico, per il quale il mantra della digitalizzazione apre ogni porta. Ma anche l’intera società e – in fin dei conti tutti noi, che col nostro telefonino sempre carico in tasca di digitalizzazione campiamo ogni giorno. Quella che state per leggere potrebbe essere un’intervista controcorrente, una sorta di contropelo mediatico alla retorica dominante. Ma così non è, anche se il volume di Gabriele Balbi – professore associato in Media Studies presso l’Istituto di media e giornalismo (IMeG), alla Facoltà di Comunicazione, cultura e società dell’USI – di cui vogliamo parlare ha un titolo che suona tutt’altro che ruffiano: «L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale», da poco pubblicato dalle edizioni Laterza. Abbiamo chiesto lumi all’autore. Gabriele Balbi, lei è un osservatore disincantato della digitalizzazione. Già nel 2018 aveva dato alle stampe il saggio Fallimenti digitali. Un’archeologia dei «nuovi» media (ed. Unicopli) e ora ci parla di «ideologia digitale». Cosa c’è che non funziona? «Ma questo non è un libro apocalittico, non è un testo negativo sulla digitalizzazione. Questo è un libro che vuole ragionare sulla storia di un’idea molto forte e incontestata, in un qualche modo globale, una visione del mondo. Ecco la dimensione ideologica. Non credo che i limiti del digitale non siano contestati. Si parla spesso di sorveglianza digitale, di controllo, di dubbi sulle BigTech… Esistono documentari Netflix, come The social dilemma , che parlano di questo». E quindi? «E quindi, quello che non c’era è il racconto della rivoluzione digitale. Un racconto che almeno le società contemporanee si fanno dagli anni ’50, dalla fine della Seconda guerra mondiale, e secondo il quale l’informazione e la digitalizzazione ci cambieranno perché è in atto una trasformazione… Trasformazione è la parola chiave. Un racconto che tocca sempre gli stessi temi». Il suo, perciò, è un approccio descrittivo, senza giudizi? «Cerco di intercettare gli elementi principali di questo grande racconto che, dal mio punto di vista, non è contestato o contestabile. Che noi si sia in un’epoca di rivoluzione digitale, tutti ritengono che sia la verità e la realtà. Io non dico che sia vero o falso, dico che è un racconto ideologico». Entrando nel «racconto», quali analogie ci sono tra la rivoluzione digitale e le rivoluzioni precedenti? «Molto spesso i protagonisti della rivoluzione digitale hanno fatto riferimento a rivoluzioni precedenti. In particolare, la più popolare è la rivoluzione industriale. Quella digitale viene perciò definita la rivoluzione industriale del nostro tempo e ha effetti ad essa paragonabili se non superiori. Un’altra rivoluzione su cui sono stati fatti molti parallelismi è la rivoluzione del fuoco. La rivista statunitense Wired , che è la Bibbia che ha veicolato questa ideologia, nel suo primo editoriale nel 1993, per la penna del direttore Louis Rossetto, scrive che per cambiamenti sociali così profondi l’unico parallelo è probabilmente la scoperta del fuoco che ha permesso all’uomo di scaldarsi, vedere di notte, mangiare cibi cotti: una rivoluzione dell’intero sistema umano. E poi vengono fatti parallelismi con la rivoluzione del libro. Internet viene vista come la grande cesura dopo Gutenberg. Ripeto: tutto questo è stato raccontato dai protagonisti della rivoluzione». E le rivoluzioni politiche del passato? «Sì, si menzionano anche quelle: la Rivoluzione francese, quelI protagonisti di questo processo ne parlano come della nuova rivoluzione industriale Non dobbiamo dimenticare i tornaconti di chi narra questo grande cambiamento La crisi dell’idea di progresso non sembra aver intaccato la digitalizzazione la russa. C’è dentro Trotsky, per esempio, con il suo concetto di rivoluzione permanente. La rivoluzione digitale, infatti, si definisce come permanente, deve essere sempre in movimento, deve sempre mobilitare…». Lei sostiene di essere neutro nel suo racconto. Però definisce la rivoluzione digitale come l’ultima ideologia. Ideologia non ha un’accezione positiva, fa pensare che qualcuno ci stia raccontando una storia sbagliata, o no? «Nell’introduzione io considero il temine ideologia come sinonimo di “visione del mondo”. Ma è ovvio che nel corso del tempo, e in particolare nel XX secolo, il termine è diventato sinonimo di menzogna. Io però, nel caso della digitalizzazione, non credo che si tratti di una menzogna deliberata. Non credo che i protagonisti ci stiano mentendo. Penso anzi che credano profondamente che ci troviamo in una vera rivoluzione. È però vero che il carattere ideologico nasconde alcuni tornaconti». Quali? «Bisogna chiedersi a chi serve la rivoluzione digitale. Io mi rispondo che serve a giustificare almeno tre ordini di interessi o gruppi sociali. Uno è relativo ai politici. I politici prendono delle decisioni cruciali e il fatto di credere di essere immersi in una rivoluzione digitale, di avere tutti i consulenti che ne parlano, permette loro di giustificare molte delle decisioni che prendono». Per esempio? «Penso ai piani di ripresa economica dopo la COVID. Ebbene, in tutti i Paesi uno dei temi forti dei rispettivi piani è la trasformazione digitale. Mettere dei soldi sulla trasformazione digitale è qualcosa che i politici dei vari Paesi fanno a cuor leggero. È diventata talmente una parola chiave in politica che giustifica qualsiasi investimento». E il secondo gruppo di interessi? «Ovviamente è quello delle grandi compagnie digitali che si autoraccontano come il centro della rivoluzione digitale e quindi come il centro della società. Non possiamo dire che Apple, Amazon o la galassia Facebook (o Meta che dir si voglia) non siano al centro della società. Basta vedere quali sono le più grandi aziende al mondo per capitalizzazione di mercato. Hanno un’enorme rilevanza economica e lo sanno. E narrandosi come protagoniste della rivoluzione, hanno anche una rilevanza sociale: sono gli eroi della rivoluzione e così si presentano». E il terzo gruppo? «Siamo tutti noi che spendiamo tempo e soldi e stiamo in coda davanti agli Apple store quando esce l’ultimo modello di iPhone o siamo interessati agli ultimi gadget digitali o passiamo ore e ore sui social. Dobbiamo in un qualche modo auto giustificarci per tutto il tempo che trascorriamo in questo modo. Del resto, è una giustificazione perfetta. Tutti pensano: se c’è una rivoluzione, io voglio farne parte. Perché se siamo tagliati fuori ci sentiamo retrogradi». Tra le tante narrazioni che lei mette in luce c’è quella della irreversibilità della rivoluzione digitale. Ma è davvero irreversibile? «Così viene raccontata. Se ne sono elaborate anche delle leggi, come quella famosissima di
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