Matteo è una di quelle persone fondamentali da incontrare almeno una volta nella vita per aprirne i cassetti della filosofia, curiosando nella sua essenza. Cristo si è fermato a Rio, un reportage intimo più che un romanzo, è una franca visione del mondo dolceamaro che popola le favelas e ne descrive la vitalità, la magia, le miserie, mescolandole col proprio vissuto. Il Brasile che racconta non è un allegro Samba nè un’intellettuale Bossa Nova. E’ ritmo nero, arcano, di tamburi percossi da nodose e rudi mani africane e che trasportano il lettore in meandri oscuri che si fanno istinto primordiale. Gli abbiamo posto alcune domande

Il Brasile è un paese che ha molte chiavi di lettura, cos’hai capito della mentalità di quella gente?
Ho capito che i brasiliani sono un popolo appassionato e superficiale.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Cosa ti manca del Brasile e cosa vorresti cambiare/cancellare di quell’immensa nazione?
Sono ancora in Brasile. Mi manca più l’Italia del Brasile perché passo la maggior parte del tempo da questa parte dell’oceano. Del Brasile non cambierei niente. Col tempo ho imparato che le persone vanno accettate come sono. Anzi sì, una cosa la cambierei: la scuola pubblica. Vorrei che fosse più efficiente e che permettesse agli adolescenti e alle adolescenti delle favelas di accedere alle università, cosa che invece non accade.
Com’è cambiata la percezione della magia e di riti come quelli della macumba e del candomblè?
Ho fatto parte per dieci anni di un gruppo di religiosi adepti dell’Umbanda che è una religione afro brasiliana, simile a quelle che tu chiami Macumba e Candomble’. È stata un’esperienza fondamentale per me. Ciò che è cambiato dentro di me è che ho smesso d’essere un uomo iper razionale, un milanese doc, e ho cominciato a fidarmi sempre più dell’istinto. Lo facevo anche quando vivevo a Milano ma qui a Rio questa cosa si è amplificata molto.
Scrivere questo libro è stato un atto intimo, col quale hai sviscerato non solo la tua quotidianità ma anche un rapporto di coppia talvolta conflittuale: è stato terapeutico e liberatorio per te?
Non lo so, forse sì. Credo d’essermi sfogato scrivendo e non so se è una cosa buona dal punto di vista della realizzazione artistica. Di questa raccolta oggi mi piacciono la metà dei racconti. L’altra metà la riscriverei.
Stai scrivendo altro? Gli argomenti sono similari o differenti?
Scrivo molto, sempre, forse anche troppo. Ultimamente sto riorganizzando e riscrivendo racconti che ho scritto dal 2003 al 2022. Sto creando una nuova raccolta di inediti che credo e spero sia più matura soprattutto dal punto di vista artistico. È quasi pronta.

Sei riuscito a promuovere il libro, nonostante la distanza -al tempo vivevi in Brasile- e comè e stato il rapporto con l’editore?
Ho fatto un po’ di promozione nei mesi in cui sono stato in Italia, ho fatto delle presentazioni. A detta dell’editore la distanza è penalizzante e per questo se pubblicherò un nuovo libro, rimarrò più tempo in Italia per promuoverlo. Il rapporto con l’editore avviene essenzialmente via email. Il lato buono è che Unicopli legge quasi tutto quello che scrivo e mi dà un feedback che mi aiuta a correggermi. Devo ringraziare in tal senso il professor Giorgio Politi che con me è molto paziente. Le sue letture e i suoi consigli mi sono sempre utili.
In Italia è percepito come un evento catastrofico per quanto riguarda l’ambiente e il futuro del pianeta, la deforestazione dell’Amazzonia. Laggiù è un tema trattato con preoccupazione simile?
Anche in Brasile siamo in molti ad essere preoccupati per l’Amazzonia. Tutto però qui è sfumato dal fatto che la crisi economica conseguente al Covid è seria. Questa credo sia la preoccupazione principale della maggior parte della popolazione brasiliana che però, detto tra noi, non ama molto preoccuparsi e ha il dono di dimenticarsi facilmente dei problemi. Basta una birra, una bella festa e tutto si risolve. Non so se è un bene o un male questo. Forse è un bene.
Di cosa ti stai occupando adesso, dove stai vivendo e come ti ha cambiato questa esperienza?
Sono in Brasile dopo aver passato 50 giorni in Italia a casa dei miei. Il mio lavoro ufficiale è quello d’impartire lezioni online di italiano e portoghese, ultimamente sono anche ricominciate le lezioni private in presenza. Mi sono laureato in lettere a Milano a inizio secolo e sono un insegnante di lingue. Due anni fa ho anche tradotto per un editore italiano “Il libro dell’Inquietudine” di Fernando Pessoa dal portoghese all’italiano. È stata una bellissima esperienza. Oltre a insegnare e tradurre, scrivo molto, come ti dicevo. E leggo un po’ di tutto, da qualche mese quasi esclusivamente poesia.
Quali sono le tue urgenze? E le tue passioni?
Mi piace camminare per ore davanti al mare o in una foresta. Gioco a calcetto. Frequento una favela. Ho a cuore l’educazione degli adolescenti della scuola pubblica. Mi fa incazzare profondamente come lo Stato brasiliano tratta gli adolescenti neri delle favelas impedendogli l’accesso a scuole efficienti, dignitose che possano avviarli a carriere interessanti. Per lo stato brasiliano gli adolescenti delle favelas sono la futura manodopera a basso costo.
Saravà! Cosa significa questa parola?
È una parola usata nelle religioni afro brasiliane. Per quanto ne so io – e ti parlo della mia esperienza diretta – significa “Salve”. Quando uno spirito si manifesta, possedendo il corpo di un medium in trance, gli altri medium e i visitanti dicono Sarava’ allo spirito o Orixa’ presente. Lo salutano così.
Intervista condotta dalla redazione Unicopli