Intervistare Matteo Colombo è stato davvero un piacere. Oltre a rappresentare il fiore all’occhiello della prestigiosa collana “La porta dei demoni”, Matteo si è dimostrato un personaggio simpatico e disponibile
Matteo Colombo è nato a Voghera nel 1976. È giornalista e direttore del settimanale Il Popolo. È autore di racconti pubblicati in numerose riviste, di guide turistiche e di un monologo teatrale. Nel 2002 ha vinto il concorso “Un mercoledì da italiani” organizzato da Beppe Severgnini su Italians e nel 2011 “Io scrivo”, il premio del “Corriere della Sera”, con il racconto “Magari disturbiamo” uscito nella collana “Inediti d’autore” (RCS Quotidiani).
Nel 2019 ha pubblicato il romanzo “Q.B.” (Unicopli), vincitore del Festival Giallo Garda 2020.
Il tuo libro è il best seller della collana La porta dei demoni. Ti pesa essere il termine di paragone per gli altri autori della collana?
Ogni storia pubblicata all’interno della collana merita di essere letta. Ognuno di noi è termine di paragone per l’altro. Io ho solo vinto alcuni premi, come il Giallo Garda 2020, e ho venduto tantissime copie. Ringrazio chi ha acquistato il mio romanzo e gli ha dedicato del tempo.
In questi ultimi anni gli chef e i programmi di cucina sono diventati più che una moda, in Italia. Da quali presupposti sei partito e hai deciso di imbastire un giallo inerente questo contesto?
Mi servivano un personaggio e un’ambientazione che fossero creativi; che mi fornissero opportunità di azione e ho pensato che uno chef e la cucina del suo ristorante stellato facessero al caso mio. Delitti e arte culinaria si amalgamano bene, sono un ottimo pretesto per sedurre il lettore e per portarlo tra le righe di un romanzo.
Tu come te la cavi in cucina? Quali sono i tuoi sapori e piatti preferiti? Vale anche il kebab!
Non sono un bravo cuoco, ma un’ottima forchetta sì. Mi piace frequentare i ristoranti, osservare le persone a tavola, l’ambiente, ascoltare come parlano i camerieri. Trovo il ristorante un luogo ricco d’ispirazione. I miei piatti preferiti sono quelli del mio territorio, l’Oltrepò pavese. Niente può superare pane e salame, il risotto al peperone di Voghera o ai funghi, un bicchiere del nostro spumante.
Quanto conosci di questo mondo? Il romanzo ti fa entrare nella testa di questi artisti/personaggi… io grazie a te ho scoperto cose davvero interessanti, il loro punto di vista, il loro lavoro e passione.
La (buona) cucina per me è un inno alla gioia. Apprezzo la fantasia e il sacrificio che si nascondono nella preparazione di ogni ottimo piatto. Mi colpiscono, anche, le invenzioni dei grandi chef che ho intervistato e seguito da vicino. Ma troppi fuochi d’artificio mi ubriacano. E poi, certi cuochi sono diventati delle star e hanno perso per strada il senso di ciò che fanno. Nel mio romanzo, dopo 200 pagine di ricette ricercate, Botero, il protagonista, si concede il lusso di farsi un piatto di uova con il pomodoro. Perché la cucina per me è un mezzo per ritornare a riappropriarci delle nostre radici, delle cose semplici che ci portava in tavola nostra nonna.
No. Mi ha fatto venire voglia di continuare a scrivere; di stare sempre di più dentro questo mio spicchio di mondo.
Tu sei giornalista. Di cosa ti occupi?
Sono direttore del settimanale Il Popolo, organo ufficiale della Diocesi di Tortona e responsabile della comunicazione per la Fondazione Comunitaria della provincia di Pavia.
Quanto diverge o è più/meno complesso il tuo metodo di scrittura paragonando il tuo lavoro quotidiano di giornalista a quello di scrittore?
Scrivere è un gesto reale. Ogni mattina mi sveglio e ho la fortuna di compiere questo gesto. Ma la realtà, come ha detto qualcuno, è fatta di due cose: fatti e storytelling. Più sposti l’ago della bilancia verso i fatti, più ti avvicini a una scrittura giornalistica; al contrario, se vai verso lo storytelling ti avvicini alla scrittura di narrazione. Io vivo di continuo questa oscillazione.
Siamo tutti curiosi di sapere se stai scrivendo un altro libro e, senza spoiler, puoi descrivere a grandi linee che argomento e ambientazioni hai deciso di affrontare?
Sì, sto scrivendo un nuovo romanzo. Posso solo dire che non è un giallo e che ha per protagoniste tre donne e una certa idea femminile dell’insoddisfazione.
Mi ha sorpreso piacevolmente la struttura narrativa, la doppia voce narrante in questo rapporto di rimpiattino tra capitoli. Come ci sei arrivato a impostare la vicenda in questa maniera? L’hai deciso già in prima stesura?
L’ho deciso subito. Desideravo dare voce anche alla vittima perché il suo punto di vista è unico e straordinario. È coinvolta sempre, anche se è stata uccisa. E ha motivazioni ben più importanti di quelle di tutti gli altri personaggi. Ogni volta che leggo un giallo, mi ritrovo a domandarmi: chissà come “l’avrà presa” il morto? Chissà che direbbe, se potesse parlare? In “Q.B.” ha facoltà di parola. Infine, mi piaceva dare ritmo alla narrazione alternando due voci: quella di Botero che è un narratore interno, e quella di Toni che è il più classico dei narratori esterni. Direi che più narratore esterno di così si muore, infatti è morto stecchito.
Da cosa sei partito? Qual è l’idea, il meccanismo che ha generato il tuo libro?
Volevo che in libreria si potesse trovare una storia come questa e, dato che ancora non c’era, me la sono scritta da solo. In fondo, sono sempre le storie che intercettano i loro autori, non è vero il contrario. Il genere invece l’ho scelto io. Mi interessava mettermi alla prova con il giallo che ha una struttura codificata, rigida. Si parte dalla fine, dalla morte, e si procede a ritroso ricostruendo la vita della vittima (o delle vittime) fino a giungere alla verità. Ecco, mi affascinava seguire quel movimento. Io non sono uno di quei lettori che lui “solo storie di crimini”, ma era giunto il momento di superare i miei limiti. Sentivo l’urgenza di procedere su un percorso segnato, di ritornare sui miei passi, proprio come fa un bravo detective.
Intervista condotta dalla redazione Unicopli