Igor De Marchi ha intagliato il suo romanzo, Il varco, come una scultura di quelle create dai Maestri artigiani alpestri. Manufatti pregni di vita, densi di resine, argutamente profonde e rispettose delle forme che il legno stesso assume. La sua prosa di un impatto struggente, ricca e appassionante, prende anima e visceri del lettore, trasportandolo con fresca e sincera vividezza verso luoghi arcani e misteriosi. Per conoscere meglio sia l’autore che la sua opera, gli rivolgiamo alcune domande.

Gli odori, le immagini, la natura… il lettore viene trasportato nei luoghi che descrivi come per incanto. Qual è il tuo rapporto con quei territori che tratteggi in maniera tanto autentica?
Non sono un montanaro, sono un pedemontano (né carne né pesce, ma tutti e due insieme a un’intensità minore).
Lo ero molto di più da bambino e da ragazzo, quando in montagna trascorrevo le estati in campeggio o da parenti. Sarà per questo che ora per me le Dolomiti hanno a che fare con un immaginario mitico, archetipico. Un luogo rifugio.
Quanto è importante conoscere a fondo ciò di cui si scrive, perché un racconto sia verosimile? Quanto ricavi dalla realtà per modellare i tuoi personaggi (penso a quelli secondari, monolitici figli della montagna)?
Si dice che siano le parole a creare la realtà, ma c’è anche chi si sforza di descrivere il mondo con le parole, di tradurlo a sé stessi e agli altri. Sono vere entrambe le possibilità, vere allo stesso momento. Mentre ero impegnato a cercare le parole per descrivere l’esperienza di Ettore in un ambiente ostile, mi sono anche affidato alle altre che sono arrivate da fuori e che quel mondo lo costruivano, e mi sono fatto condurre da loro. Per me la conoscenza conta molto, ma questo non vuol dire che sia necessaria o che aiuti a essere verosimili. Più conosco a fondo una cosa e più ho l’impressione di vederla strana.
Per i personaggi del romanzo poi, come si fa con i Lego, ho ravanato nello scatolone di pezzi di persone che mi sono care e che ho messo via negli anni, combinandoli per dar vita a nuove figure.
Come interpretare i frequenti corsivi che accompagnano lo svolgersi della tua storia? Come pensieri propri del protagonista o “io” narrante superiore?
Potrebbero essere la voce della coscienza di Ettore, come ha ipotizzato qualcuno, oppure, come dici, un io narrante superiore, oppure, come dicono altri, non vogliono dire un cazzo. E se invece fosse la lingua a parlare? Che prende il sopravvento e strappa il testo per rivelare qualcosa che accomuna chi scrive e chi legge ai personaggi?
Il rapporto centrale tra le due figure chiave, il rapporto padre-figlio è acutamente introspettivo e molto psicoanalitico… il vecchio, autoritario e severo, granitico e impossibile da scalfire, come la nuda roccia. Il giovane, spugna che assorbe fragilità. Come sei arrivato a raffigurare in modo tanto incisivo questi due personaggi?
Una delle prime preoccupazioni quando scrivo è: evita gli stereotipi, i contrasti manichei. Nessuno è così netto. Mi piacciono le ambiguità. Sono le luci e le ombre insieme a dare spessore a un corpo. Nessuno dei due personaggi che descrivi è positivo o negativo. Volevo che Ettore e Valeriano facessero i conti con le rispettive superfici, dove a volte vi si riflettono come in specchi malfatti.
Il gorilla entra in scena spiazzando il lettore. E’ una figura simbolica? Riallaccia l’uomo moderno a uno stadio primitivo, ancestrale…
Ho dato un volto all’Altro, all’altro ”io” di Ettore se vogliamo, che emerge quando più lo nega e teme; e gli ho dato un pensiero rudimentale da cui poter ripartire. È il personaggio a cui voglio più bene.
Ti sei dedicato più alla poesia che alla prosa, prima di questo romanzo. Quali sono le molle che fanno scattare la tua sensibilità artistica? Che difficoltà o differenza hai affrontato nello scrivere un romanzo e cosa ti ha spinto a farlo? Sei intenzionato ad affrontare nuovamente la prosa?
Per dirla in maniera semplice la differenza è di passo e di distanze. Ragiono, prima di scrivere, in maniera molto simile sia quando penso alla poesia che alla prosa. Vorrei che la prosa avesse la stessa densità (cosa improbabile, oltre che snervante) della poesia. Avendo il passo più lungo la scrittura in prosa raccoglie procedendo molti più dettagli e impressioni, mentre la poesia concentra, facendo meno strada, tutto ciò che non può raccogliere; un vuoto insomma, almeno per me. Per questo mi piace.
Ora alterno le due scritture come il dottor Jekyll: quando c’è una non può esserci l’altra. Sto pulendo un nuovo romanzo e ho un libro di racconti, Favole per fantasmi, bell’e pronto.
Parlaci un po’ di te, chi è Igor De Marchi? Lavoro, studi, passioni, filosofia… vai a ruota libera.
Una sorta di nota biografica estesa? Di solito, se posso, lo evito. Ho un passato da artigiano, in cui non sono quasi mai sceso sotto le 60 ore settimanali e al contempo studiavo, leggevo e pubblicavo due libri di poesia. Mi piace pensare di aver evitato il burnout almeno un paio di volte, ma non è vero. Mi racconto un sacco di cazzate per vivere, e non tutte divertenti. Si dice che il segreto sia una ricca vita interiore ma io, di ciò che pensa e prova il mio sistema nervoso enterico, che è il primo cervello, mi fido solo fino a un certo punto.
Intervista condotta dalla redazione Unicopli