Gaia Cottino è l’autrice di Verso Monte. Nuove mobilità e culture del cibo nelle Alpi occidentali. Antropologa e ricercatrice presso l’Università di Genova, ha svolto le sue ricerche di campo in Oceania e sulle Alpi, dove, con particolare attenzione a contesti diasporici e migratori, si è specializzata sui temi del cibo, del corpo e della salute, dei saperi indigeni in ambito ecologico e delle politiche locali e globali in materia di agricoltura, orticoltura e nutrizione.
Ecco come ce lo racconta:
Le terre di montagna hanno vissuto negli scorsi decenni un grave processo di spopolamento, parte di un più ampio movimento di urbanizzazione e abbandono delle aree “marginali” ai grandi centri. Oggi è ancora così o la situazione sta iniziando a cambiare?
L’emorragia di popolazione che ha caratterizzato le terre alte nel XX secolo, impattando le valli dove ho svolto la mia ricerca con numeri da capogiro perché la valle Grana ha perso il 75% degli abitanti, la valle Gesso e Stura all’incirca il 70% e la Valle Maira l’83%, ha subito secondo l’ISTAT una battuta d’arresto. Non solo, i saldi migratori sono tornati positivi. Dopo secoli di popolamenti, permanenze, abbandoni, fascinazioni, rifiuti, mobilità, centralità e marginalizzazioni delle montagne alpine, oggi si assiste infatti ad un nuovo movimento verso monte che sta dando forma ad una inedita composizione sociale. Si tratta di nuovi montanari italiani e stranieri, mossi da volontà o necessità e di richiedenti asilo forzatamente ricollocati in montagna in attesa del permesso di soggiorno, che si ritrovano a lavorare in ambito agro-silvo-pastorale fianco a fianco di coloro che sono rimasti nonostante il richiamo a valle del lavoro salariato. Il tres d’union è, infatti, il cibo. Per coloro che hanno scelto di abitare la montagna rappresenta un volano per il radicamento sul territorio e la realizzazione di un nuovo progetto di vita, un progetto irrealizzabile senza la manodopera straniera forzatamente ricollocata nei centri di accoglienza di montagna. Rappresenta invece un richiamo per i migranti per necessità, perché il cibo si trova al centro delle attività professionali presso aziende latto-casearie e cucine, dove spesso quest’ultimi trovano impiego. E infine il cibo è quel collante sociale per i “restanti” perché al cuore delle forme associative dei territori montani che hanno perso l’interesse per la partecipazione politica e trovato nei consorzi alimentari delle nuove forme di attivismo e socializzazione.
Che ruolo hanno i migranti in una possibile futura rivitalizzazione delle aree montane? E con quali difficoltà?
Credo che questa ricerca provi che la categoria di migrante è molto ampia: tutte le persone enunciate poco fa sono migranti perché si muovono verso monte e si trovano ad abitare un nuovo contesto, ovviamente con gradi molto diversi di difficoltà; sono italiani, sono stranieri residenti, sono stranieri comunitari e extra-comunitari.
Tuttavia, molto spesso con questa categoria si allude alla sola condizione di migrante straniero che proviene da uno stato al di fuori dell’Unione Europea e che fa richiesta d’asilo nel nostro paese. Da quando ho iniziato questo percorso di ricerca etnografica, nel 2018, questo migrante è stato definito, nella narrazione mediatica, come una “straordinaria risorsa” per riempire i “vuoti” lasciati dai montanari; nella maggior parte dei casi mi è parsa una semplicistica maniera di allontanare e confinare un fenomeno, visto come uno scomodo problema, ai margini. Al contempo, la pandemia ha riaperto il dibattito sulle scelte di vita non urbane, e in particolare sulla abitabilità della montagna e sulla sostenibilità di scelte di vita in quota, con titoli come Una montagna di opportunità dopo il Covid e 2050 fuga sulle Alpi: così covid e effetto serra potrebbero costringerci a migrare in quota, aprendo a nuove forme di mobilità.
In questo quadro il libro cerca proprio di analizzare, attraverso l’indagine micro di quattro valli della provincia di Cuneo, quali esiti sta dando la convivenza di una tale eterogeneità di migranti e restanti e quali combinazioni creative sono risultate efficaci nella rivitalizzazione dei territori montani. Ma questo è stato possibile farlo solo dopo aver guardato alle frizioni interne ai mondi della montagna: ovvero con gli occhi di chi la abita già, e non vede alcuna poesia nell’abitarla e decostruisce le retoriche ruraliste sottolineando che la montagna è principalmente fatica; ma anche di chi non riesce ad immaginare cosa possa essere la montagna del futuro, e che andrebbe coinvolto nello sforzo di re-immaginazione più che marginalizzato per il proprio scetticismo. O ancora, con gli occhi di chi riabita la montagna criticando la rigidità delle ricette dei suoi vecchi abitanti e di coloro che, da qualche anno, si trovano ad abitarla forzatamente perché redistribuiti sul territorio nazionale da politiche dell’immigrazione che non si combinano con efficaci politiche del lavoro.
La tua ricerca coniuga da sempre l’antropologia con il mondo del cibo, e una mano che accarezza una forma di Castelmagno compare nella copertina del tuo libro. Qual è il significato del cibo oggi nei contesti montani che hai esplorato?
La foto è stata scattata da un collega antropologo visuale e documentarista, Andrea Fantino, e l’ho selezionata perché rompe gli stereotipi montani raffigurando una mano di una giovane alter-nativa, termine che uso nel testo per indicare i nuovi abitanti della montagna includendo tutti coloro che sono nuovi alla montagna con gradi diversi di capitale sociale, economico e culturale. Questa mano che accarezza le forme di Castelmagno, simbolicamente rappresenta la relazione, in un sistema di interdipendenze produttive e alimentari.
Se da un lato, la ricerca conferma che il cibo che mangiamo è prodotto dai migranti e che il lavoro del settore agro-silvo-pastorale è etnicizzato. Dall’altro, è in queste valli che ho scoperto la messa a terra di strumenti legislativi in ambito agro-silvo-pastorale, caratterizzato per sua natura da stagionalità e pertanto da discontinuità, che hanno evidenti ricadute in ambito sociale. In misura diversa e a macchia di leopardo ho infatti incontrato sul mio percorso un tracciato di laboratori rigenerativi, uniti nel rispedire al mittente la visione periferica delle valli e la politica urbana dell’occultamento dei migranti in spazi di retroscena, contribuendo così alla loro de-marginalizzazione e affermazione come spazi di cerniera. I progetti raccolti nel libro raccontano di una capacità di riattivare la montagna creando sovranità alimentare, esercitando formule diverse di cittadinanza, costruendo un più alto grado di equità sociale, facendo comunità e attivando quel senso di responsabilità che, al contempo, bilancia limiti e vincoli imposti dall’ambiente e necessità della popolazione che abita il territorio.
Il cibo quindi, nella sua dimensione concreta e simbolica di vettore di idee e messaggi politici, ha rappresentato un espediente per l’osservazione delle dinamiche sociali interne alle valli. Il campo alimentare in cui si costituiscono “soggettività culinarie” si è infatti rivelato essere un punto di osservazione privilegiato, in quanto è al loro interno che si costruisce il terreno per indagare gli effetti del potere e le risposte messe in atto dai soggetti. L’auto/etero narrazione alimentare, sia sul piano individuale sia collettivo, è risultata illuminante per leggere i processi che investono i singoli e coinvolgono le comunità dei centri di montagna, in particolare per quelle persone che si sono ‘fatte montanare’ non sulla base di un progetto migratorio e che si trovano eredi per caso di un sapere montano.
Per Unicopli, nella collana Biblioteca di Studi Antropologici diretta da Stefano Allovio, Gaia Cottino ha pubblicato anche Il peso del corpo. Un’analisi antropologica dell’obesità a Tonga.