Flavio Santi è l’eccellente curatore della collana La porta dei dèmoni, fiore all’occhiello letterario targato Edizioni Unicopli.

Chi è Flavio Santi, vuoi presentarti?
Oddio, non amo le autopresentazioni. Per chi è curioso posso rimandare alla pagina wikipedia dedicata al sottoscritto. E navigando su Internet un po’ di roba si trova.
“La porta dei dèmoni” è una collana editing free: nessuna parola del testo originale è stata maltrattata da un editing troppo invasivo o troppo “autoriale”. I testi ospitati corrispondono in toto alla volontà dei rispettivi autori, opportunamente sollecitati dal “dèmone” di un lavoro di confronto e ripetute letture.”
La collana che dirigi ha uno “statuto” davvero coraggioso. La finalità di valorizzare gli autori tout court, tutti italiani e praticamente esordienti, è un azzardo che poche Case Editrici si sentono di affrontare. Da chi è nata l’idea?
Era una mia vecchia idea, su cui mi è capitato di riflettere e scrivere varie volte. Poi un giorno quel vulcano di Giorgio Politi mi ha scritto una mail proponendo il progetto di una nuova collana di narrativa, e da lì è cominciata l’avventura…
Com’è organizzata la filiera lavorativa e con quali parametri scegli le opere poi pubblicate?
Credo molto nel lavoro di squadra, per cui io e Giorgio (adesso si è anche aggiunta Clara Zanardi), ci confrontiamo regolarmente sui testi che riceviamo. Se poi so di qualche autore che sta lavorando a qualcosa di interessante, mi faccio vivo io direttamente. Sui parametri non abbiamo preclusioni di sorta: quello che conta è solo e soltanto la qualità del testo.
Perché è così difficile per un aspirante scrittore, farsi “leggere” dagli editor, in generale? Tu quanto materiale valuti, normalmente e cosa pensi della qualità media delle proposte editoriali a te sottoposte e l’autore rifiutato ha un riscontro, dei suggerimenti, magari, da parte tua?
Arriva di tutto. Il problema è che spesso si tratta di persone che scrivono ma non leggono, mentre il processo è proprio quello, come diceva Tondelli: scrivo perché ho letto. Ogni scrittore è innanzitutto un lettore accanito. Solo dopo decenni di lettura si può magari provare a cimentarsi, e senza fretta. E solo dopo anni di scrittura (e soprattutto riscritture, cancellature, ecc.), si può forse giungere a qualcosa di decente. Come diceva Kipling, il vero scrittore si vede da quello che butta, non da quello che tiene! Inoltre, a guidare la scrittura ci dovrebbe sempre essere una necessità, e infatti se c’è poi si sente. Si può fingere su tante cose, ma non sulle proprie necessità, urgenze. Poi, certo, non è detto che si sia capaci di dare una forma convincente a questa necessità – ma se lo si può imparare, lo si impara soltanto leggendo. Punto.
Pensi che stiamo vivendo un periodo di omologazione letteraria e (in caso affermativo) da cosa immagini derivi? (viceversa, se non lo ritieni affatto)
No, in fondo non credo, perché l’offerta è molto ampia, c’è davvero di tutto, e per ogni palato, non dobbiamo farci ingannare dai libri che troviamo agli autogrill: basti pensare a tutte le nuove traduzioni che stanno uscendo dell’Ulisse di Joyce, per dire. Ma gli esempi sono davvero tantissimi. Il problema semmai è formare dei lettori, e quello lo si fa a scuola e all’università, di solito. Anche in famiglia, per carità, se si ha la fortuna di avere dei libri a casa – ma lì la cosa può essere a doppio taglio, conosco figli di grandi lettori che per reazione non leggono, dunque attenzione! Come per ogni attività umana, alla base non ci dev’essere un’imposizione, ma un piacere personale. Un adulto che non ha mai letto non verrà di colpo fulminato sulla via di Damasco, perché la lettura è una strana attività, bellissima, ma che richiede concentrazione, lentezza, anche fatica fisica, tutte cose a cui ci si abitua da bambini.
In un interessante articolo apparso su Liberazione, tempo fa, hai scritto a proposito della iniziale difficoltà di pubblicazione di libri divenuti in seguito dei bestseller, che “…Standard di giudizio troppo bassi e omogenei -citando i comitati editoriali- , possono portare a errori madornali.” In seguito hai introdotto un tema importante: “Quello che si legge è il risultato di una scrematura arbitraria.” Infine hai concluso con: “A volte, insomma, si ha il terribile sospetto che siano gli editor a fare la letteratura, anziché gli scrittori.”. Sono motivazioni simili a queste che ti hanno in seguito messo in moto verso la filosofia che sta alla base della collana La porta dei dèmoni?
Direi di sì, per questo ho lanciato l’idea dell’editing-free, che non significa naturalmente che i libri vengono stampati come ci arrivano, ma che il lavoro è più di confronto, dialogo con l’autore, si ragiona di più sull’impianto complessivo che sulla singola parola o pagina, si cerca di fare più un lavoro socratico e maieutico, in fondo per secoli è stato così, i grandi classici non hanno avuto alcun tipo di editing, se non da parte del proprio autore, e mi pare che siano uscite fuori cose piuttosto interessanti, no?
E poi mi sembra anche una questione di onestà intellettuale: io sono anche autore in proprio, consciamente o inconsciamente se facessi un editing approfondito farei riferimento alla mia idea di scrittura, di narrazione, che non è detto funzioni sempre, anzi. Non si può essere oggettivi, e nemmeno lo voglio!
D: In questo sventurato periodo di pandemia pare che si legga di più. Le grandi catene librarie stentano, in ogni caso, rispetto alle librerie indipendenti e di quartiere. Per quale motivo, a tuo parere?
La libreria indipendente è un presidio di cultura essenziale: conosco tantissime realtà, non faccio nomi perché ne dovrei fare a decine, ma rimando a un bell’articolo. E insieme alla libreria indipendente aggiungerei le biblioteche, altro tassello fondamentale. Non ho nulla contro le grandi catene, ma lì la fruizione è diversa. Quando si va nella propria libreria (ogni lettore ha una o più librerie di riferimento) è un po’ come, se mi passate il paragone, sono un buongustaio, andare a mangiare a casa della mamma, o della nonna, è la cucina del cuore; durante la settimana, quando si ha fretta, va bene passare in qualche fastfood, ma sai che poi il fegato ne risentirà… Non so se ho reso l’idea (certo, se si ha, come me, una mamma che non ama cucinare, le cose si complicano; però ho sempre una zia che cucina divinamente!)

Ho la sensazione che la calata dei manager, che hanno scalzato dal ruolo di editor figure professionalmente più preparate e funzionali, stia facendo male al mondo editoriale, Strategie di mero mercato, marketing e scelte pavide ma sicure, rincorrendo i blockbuster esteri, sono deleteri per la crescita della novelle vague nostrana oppure opportunità di confronto alzando l’asticella della qualità artistica?
Questione complessissima. Provo a dare qualche suggestione. Dobbiamo essere chiari su una cosa: l’editoria è un’industria e come tale funziona. Dunque nulla di strano se si inseguono le mode, si spreme il tubetto fino allo stremo, ecc. Sono le logiche legate all’industria neocapitalistica, il nostro sistema economico è quello: per me lo possiamo anche cambiare (fosse per me tornerei anche al baratto, e non scherzo), ma finché c’è quel modello, lo dobbiamo accettare (si chiama principio di realtà), e certo modificarne le storture, le derive, sotto gli occhi di tutti, ma alla fine il punto di caduta rimane sempre quello lì. Cioè, secondo me le cose si possono cambiare dall’interno delle stesse, non dall’esterno (si chiama donchisciottismo quest’ultimo, e sappiamo come va a finire con i mulini a vento). Del resto, le cose cominciano da molto lontano, forse con Daniel Defoe, il celebre autore del Robinson Crusoe: ebbene Defoe è uno dei primi che scrive a cottimo, si fa pagare per quello che scrive, anzi soprattutto per quanto scrive, eppure cava fuori dei capolavori. Dumas e Balzac sono altri due eccellenti esempi, lo stesso povero Salgari (anche se poi travolto da quel sistema). Dunque arte e capitale, mi vorrete perdonare se semplifico un po’, possono coesistere – anzi lo hanno fatto da sempre, forse. Questo sistema va però temperato con il fatto che il libro è sì una “merce”, ma una merce unica, speciale, a sé. Va venduto, certo, ma dev’essere di assoluta qualità, perché in Italia lo zoccolo duro di lettori non è amplissimo, si calcola circa 50.000 persone, e sono lettori molto attenti, tutti gli altri (cioè i restanti 58 milioni, 930.000 e rotti italiani) comprano un libro all’anno (il libro del momento di solito) per sentito dire, ma poi molto spesso non lo leggono nemmeno. Del resto esiste la classifica dei libri più venduti, non più letti: se ci fosse quest’ultima credo che avremmo una percezione diversa della situazione complessiva.
L’editoria italiana è tra le migliori al mondo, se non la migliore, per cura, attenzione, passione, eredita la grande tradizione umanistica: la tipografia moderna nasce in Italia, non dimentichiamocelo mai! Il panorama è ampio: grandi case editrici, ma anche medie e piccole di altissimo livello e professionalità. Uno dei problemi è fare sistema, tenere in relazione tra loro varie realtà: università, biblioteche, scuola; realtà che ancora oggi fanno una dannata fatica a dialogare tra loro…
Io, per esempio, ho sempre proposto una cosa: che i grandi autori di punta (anche qua, ognuno pensi a chi vuole) diano una loro opera importante (non gli scarti, eh!) a un piccolo editore. Personalmente l’ho sempre fatto, alternando grande e piccola editoria, e da ultimo con un editore appena nato sono riuscito a vincere il Premio Viareggio, fatto mai successo prima.
Quanto e come è cambiata l’editoria in quest’ultimo decennio -anche in rapporto all’ascesa del digitale, dell’E-Book ecc…- e quanto è difficile starci dentro?
L’e-book è ancora una quota molto piccola, in fondo il libro è bello proprio perché è un oggetto tridimensionale, gli fai le orecchie, te lo metti in borsa, nello zaino, lo tocchi, lo annusi (adesso l’odore della carta è un po’ anonimo, ahimè), ci scrivi sopra ecc. Ripeto, bisogna pensarsi in una rete di relazioni: editoria-scuola-biblioteche-università-ecc., solo così la situazione potrà migliorare, altrimenti si andrà sempre di più verso una nicchia, qualcosa per sempre meno persone… Noi ci siamo evoluti perché siamo animali che raccontano, mai dimenticarlo, le storie sono state fondamentali per l’evoluzione della nostra specie. E se notiamo qualche involuzione della specie (ogni riferimento a guerre, soprusi, ingiustizie ecc. è voluto), dipende anche dal fatto che si legge poco (e dunque si pensa, ci si emoziona, si riflette poco).
Quant’è stato penalizzante per i tuoi autori, il lockdown conseguente il Covid, non avere avuto occasione di partecipare alle Fiere del Libro, alle presentazioni e firma copie nelle librerie, e come hai/hanno sopperito alla sospensione degli eventi e al blocco della visibilità in presenza?
L’online ha in parte sopperito, con presentazioni su Facebook ecc., ma il contatto vero, fisico, con le persone è fondamentale, per fortuna adesso stiamo recuperando, anzi la voglia di socialità è forse addirittura aumentata. I libri vanno presentati il più possibile, trovando anche formule nuove: in spiaggia, sotto l’ombrellone, per strada, sui mezzi di trasporto, ecc.
Qual è il rapporto coi lettori, se esiste, nel tuo caso?
Come dico sempre, i lettori sono i nostri veri datori di lavoro. Senza lettori tutto crollerebbe.
Per finire, puoi parlarci dei nuovi progetti, delle prossime uscite previste per La porta dei dèmoni?
Come si suol dire, bollono cose importanti in pentola. La collana si aprirà anche ad autori stranieri, e continueremo il nostro mai domo lavoro di scouting… Buona vita e buone letture, dunque!
Intervista condotta dalla redazione Unicopli