Intervista a Fabrizio Bajec

Feb 15, 2023

Introduciamo l’intervista a Fabrizio Bajec con la seguente citazione di Fabrizio De Andrè, che racchiude il senso stesso del suo eccellente romanzo:

“Chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di rassomigliare a se stesso, è già di per se un vincente.”

 

 

Emma – alter ego di Antonio -, la protagonista del tuo romanzo, pone con disarmante lucidità la questione dell’”operazione”, un confine valicato il quale non c’è ritorno. La motiva con sensibilità rara e induce il lettore a prendere coscienza, senza banalizzarlo, di tale delicato passaggio esistenziale.

Si, non c’è ritorno possibile. Ma quando si arriva a quel punto, il passaggio è in fondo già stato compiuto. Il frutto è caduto, per darti un’altra immagine della maturità. Prendendo invece un altro termine di paragone, diametralmente opposto a quello che menzioni, per me è un po’ come chi entra in un ordine religioso per mezzo di un rito iniziatico. La cerimonia potrà anche suscitare apprensione, tensione, tremore o gioia, ma per arrivare a quel giorno, qualcosa deve essere già cambiato dentro. Manca solo il gesto, ed è tutt’altro che brusco o pulsionale. Per questo non mi premeva di entrare nei dettagli . Non ritenevo fondamentale descrivere un’operazione chirurgica.

Quali sono state le reazioni che hai riscontrato, da parte dei lettori o della critica, rispetto a un libro coraggioso come il tuo? Hai ricevuto recensioni infastidite da parte dei “soliti bigotti”, per esempio?

Nessuna recensione infastidita, ma un bel po’ di silenzio, per cominciare, interrotto solo qua e là da annotazioni riassuntive, commenti sulla forma del libro, reazioni di sorpresa, tiepidi incoraggiamenti, domande di carattere biografico, e un passaggio alla radio inaspettatamente impegnativo, perché l’intervistatore era molto preparato. Forse quello è stato il riscontro più appagante.

C’è un passaggio del libro che sembra quasi uno sfogo. E’ una riflessione amara riguardo i giovani italiani, al bivio tra scuola e mondo del lavoro. Descrivi un fosco futuro da sfruttati, il disprezzo della loro intelligenza, verso il talento. E’ una questione annosa e purtroppo non sembra esserci alcuna volontà politica e sociale di affrontarla. In Francia dove vivi riscontri una diversa sensibilità delle istituzioni, nei confronti dei giovani?

Direi di sì. Nonostante il precariato generale dei nostri tempi, non vedo una generazione no future, ma giovani che tentano concorsi con fiducia e speranza, altri determinati a non farsi sfruttare, altri ancora che sono perfino entrati in rottura con le leggi del mercato e hanno una lucidità che io non avevo a vent’anni. Si offrono tutte le chances possibili (anche l’espatrio), ma senza rinunciare alla denuncia e alle manifestazioni contro un disegno della società che non approvano. Parlo ovviamente della gioventù che mi interessa, non di quella delle start-up! Eppure quando introduco il capitolo sulla scuola con quel passaggio, non lo faccio sfogandomi. Per me la polemica è finita da anni. Ricordo solo quali erano le condizioni di partenza di un personaggio e di una generazione. Non suonerebbe diversamente in Grecia o in Portogallo.

La trama di Transizione non è lineare. L’hai sviluppata tra presente, ripetuti flashback e l’hai intercalata dai dattiloscritti dell’insegnante. Come ti sei approcciato alla struttura narrativa di questo romanzo?

In maniera caotica, ma fidandomi anche dell’idea che avevo coltivato durante i miei studi di letteratura. Mi interessava cioè affrontare la questione della verità fittizia e quella del documento. Ho accettato l’incursione della finzione in quello che andavo scrivendo, tornando alla prosa, dopo anni di sola poesia, e quindi ponendomi domande di meta-narrativa. Mi è tornata in mente la mia tesi di dottorato sulla revisione dell’autobiografia in Francia. Sentivo come una necessità che uno dei due protagonisti si interrogasse sul modo di raccontare questa storia e che la vivesse in maniera non lineare, come noi oggi abbiamo un rapporto complicato col tempo. Quindi che forma dare a un testo che ha per tema l’identità?

 

 

L’argomento che muove Transizione è la “diversità di genere”, un tema attuale e molto sentito dalle nuove generazioni. Il mondo LGBT ha finalmente voce tramite associazioni, Pride e outing di personaggi famosi, oltre all’apertura, nei Paesi più progressisti, verso i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a trattarlo?

Mi ha motivato piuttosto la difficoltà che provano molti giovani a definirsi giorno per giorno, o le crisi di identità sociale che ho conosciuto in passato, come tanti. A un certo punto, nel libro credo che emerga il fatto che l’identità non debba essere più un problema. E sono arrivato addirittura alla conclusione che l’identità non esiste, proprio mentre ultimavo il testo. Per una ragione non scontata, perché contraddice perfino la genetica: non c’è nulla di sostanziale o di fisso in natura, tutto si trasforma continuamente, ma non lo vediamo sempre ad occhio nudo. Poi, certo, qualche incontro determinante mi ha messo di fronte all’evidenza che era urgente raccontare questa storia.

Fai pensare il lettore, in empatia col personaggio Antonio/Emma, alle persone che, come la tua protagonista, si sentono donne benché imprigionate in un corpo maschile – e viceversa-. Dev’essere una condizione opprimente, un incubo gotico in stile Poe. Durante l’adolescenza Emma diviene autolesionista e anoressica. Depressione, mortificazione del proprio corpo, pensieri suicidi… Hai riscontrato che siano passaggi frequenti in chi rifiuta la propria identità?

Sono in effetti passaggi molto frequenti in chi cerca di costruirsi sotto lo sguardo delle “autorità”; paradossalmente ci si distrugge. Ma questo vale anche per molti adolescenti che non presentano l’esigenza di una transizione di genere. Molta gente crede di essere un’anomalia, e il conformismo dell’ambiente in cui vivono fa sì che introiettino la violenza della “norma”. Allora si fanno fuori col contagocce. Il problema viene da ambo i lati, dall’individuo e dalla massa ordinata. Il dolore fa sentire vivi. Non vorrei neanche semplificare, perché ogni individuo corrisponde a un mondo diverso, complesso, ma non separato. Quello trans-genere è un paradigma della complessità psicologica dell’Uomo moderno, in una società atomizzata.

Le cronache narrano con una certa frequenza episodi di rapporti tra professori e alunni che trascendono in qualcosa di “vietato”, specialmente quando si tratta di soggetti minorenni. Intendo amori o sesso vissuti in maniera addirittura morbosa. Il professore del quale ci racconti, sembra vivere queste situazioni in forma seriale, predatoria. Quale meccanismo scatta, a tuo parere, affinché una situazione simile a quella che descrivi nel libro travalichi il lecito?

Un’adolescenza prolungata. Questo professore è un altro caso di instabilità, di ambiguità delle intenzioni. Sembra non sapere cosa vuole, e dunque tenta di sublimare i propri desideri confusi imponendosi all’altro, cercando di dominarlo per dominare se stesso. Ma di nuovo torna il riflesso di una società di sopraffazione, in cui il lecito si sposa con l’illecito, come avviene nella pubblicità, per esempio. Ricordo un manifesto nella metro in cui si pubblicizzava una piccola compagnia aerea assimilando una coppia di età avanzata alla copulazione e alla libertà di viaggiare. Era sotto gli occhi di tutti. Ma non c’è vera trasgressione, perché si devia continuamente il percorso, si cambia discorso. Tutti sanno che anche la scuola è un luogo dove si esercita il potere e che i rapporti sono di natura molteplice. Personalmente, ho un rapporto assai distaccato con questo ambiente.

Sondi la psicologia del professore entrando nei campi contrapposti studente/insegnante, in particolare con Emma e Samuel. Palesi il loro “sentire”, l’usarsi reciproco, le discordanti filosofie e lo scontro che rende appassionante il lavoro del Maestro e stimolante l’apprendere per l’allievo. Hai avuto insegnanti importanti, che hanno lasciato il segno, durante il tuo percorso scolastico?

Non ho avuto contatti del tipo che descrivo nel libro, cioè conversazioni che vanno all’osso, anche animate, contrapposizioni generazionali forti che mi abbiano scosso o cambiato la vita. Ma riconosco che durante i primi anni di università ho visto modi di insegnare che mi interessano tuttora e che mi hanno spinto tardi a sondare tra le pedagogie alternative, anche datate. Senz’altro un paio di incontri mi hanno fatto sentire che la letteratura era qualcosa di vitale per la crescita o per la mia formazione culturale. Mi sono accorto che dovevo costruirmi un bagaglio e un metodo, anche abbastanza di corsa, se non volevo ricevere un diploma come si acquista un formaggio.
Oggi invece non sono sicuro di avere lo stesso rapporto vitale con la letteratura. Credo che potrei addirittura farne a meno, e mi fa impressione dirlo.

Infine racconta qualcosa di te stesso, Fabrizio. La tua storia, ciò che fai e che ami, i tuoi progetti e una curiosità… Come mai hai scelto di vivere proprio in Francia?

La storia personale non mi interessa più. Questo è il cambiamento degli ultimi anni. Non vorrei più raccontare le vicende, le avventure o disavventure di un eroe romanzesco. Poi, per carità, mai dire mai! Quindi di me dico solo che intorno alla trentina ho lasciato l’Italia per crescere, sperando di avere un orizzonte più variegato di possibilità in un paese di cui conoscevo la lingua e la cultura. Ma alla fine bisogna scegliere, e ho scelto di insegnare a un pubblico adulto.
Amo scoprire nuovi ristoranti, e viaggio più spesso in questo modo, da una gastronomia all’altra, senza prendere l’aereo. Purtroppo però l’inflazione mi sta scoraggiando. In fondo è bene accorgersi che si può fare a meno anche di questo. Della natura e del verde invece no. Bisogna correre ogni tanto a cercarsela, è vitale, se si vive in una metropoli.
Tra i miei progetti ci sono un’auto-antologia di versi sull’arco di un ventennio di raccolte edite, un breve romanzo epistolare nel cassetto, dell’epoca di quando mi interessavano ancora le storie che funzionano – troverà la sua collocazione o meno –, e infine vorrei tradurre in italiano qualche poeta francofono.

 

Intervista condotta dalla redazione Unicopli