Liber
Il libro di Chiara Asti riflette sulle potenzialità ludiche della storia, fra processi di apprendimento, laboratori didattici e giochi
Ebbe una vita televisiva brevissima, dovuta soprattutto alla sua incompresa diversità, il programma II telegiornale della storia, curato da Arrigo Petacco per il secondo canale RAI nel 1976. Scrittore, giornalista e sceneggiatore, Arrigo Petacco (1929-2018) ha legato il suo nome a una serie di programmi di argomento storico trattati con il linguaggio e lo stile dell’inchiesta televisiva. La sua idea hi di utilizzare una cornice tipicamente televisiva, come il telegiornale, per trattare avvenimenti della storia come se fossero accaduti oggi. Il programma si apriva con la sigla del TG e con il lancio della notizia, nello stile breaking News, per esempio: “Era appena caduto l’Impero Romano”…; “Il massacro e l’uccisione del generale Custer nella battaglia di Little Bighorne”… Il telegiornale proseguiva sulla base del suo andamento tipico, fatto di collegamenti esterni con inviati speciali (gli stessi dei normali TG che stavano seriamente al gioco) che avevano raccolto testimonianze e informazioni direttamente sui luoghi di avvenimenti importanti, per poi tornare in studio dove il conduttore riprendeva la notizia con ulteriori approfondimenti e alternando abilmente, come avviene nel normale TG, i riferimenti alla politica interna ed estera, all’economia, riportando fatti di cronaca ed eventi nelle varie parti del mondo, tutti appartenenti allo scenario storico in questione. Il dispositivo utilizzato, che rendeva efficace il programma, era basato su una doppia, palese quanto intenzionale incongruenza: da una parte la manipolazione cronologica di eventi trattati con il linguaggio contemporaneo della TV, come se fossero avvenuti oggi; dall’altra il ricorso a materiali visivi, irrinunciabili nel telegiornale e che, in questo caso, erano brani di film storici, sculture, dipinti, reperti trattati in ogni caso come immagini di repertorio o di documentazione sui fatti, che venivano presentati in un amalgama di fiction e di realtà creando una sorta di “spaesamento” che funzionava come chiave di lettura a volte ironica, a volte critica, sia nella ricostruzione e interpretazione della “Verità storica”, ma anche sul TG stesso come dispositivo di narrazione di eventi. Il risultato era un programma decisamente originale per il modo di trattare la storia, con i dispositivi retorici propri del linguaggio dell’informazione televisiva anziché con quelli della comunicazione didattica o storiografica tradizionali, evidenziando come questo spostamento del registro linguistico producesse un diverso modo di cogliere il senso stesso della storia, e quindi di problematizzarla. In quanti modi si può raccontare la storia? Una domanda legittima, poiché i saperi della storia sono da sempre oggetto di codificazioni linguistiche in cui l’oggettività dei fatti e le modalità della loro interpretazione/narrazione sono strettamente connessi. Insomma, la Verità storica andrebbe sempre scritta con la v minuscola. Mi sono ricordato di questo programma televisivo leggendo il libro curato da Chiara Asti Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica (Unicopli 2019), perché la provocazione culturale è la stessa: guardare e trattare la storia, in un certo senso stressarla, attraverso modalità che non sono quelle della sua trasmissione scolastica, basata su un corpus di conoscenze dato (per quanto rigoroso), ma sostanzialmente algido, asettico, spesso nozionistico, tale da aver generato troppo spesso nei più giovani il rigetto di questo (fondamentale) sapere. Nel libro si fa riferimento alla Public history, una pratica nata negli anni Settanta in Nord America (il nostro TG della Storia era del 1976) con l’intenzione di fare della storia un sapere diffuso, per il pubblico, valorizzando una vasta gamma di attività svolte da persone che, seppure con una formazione e un interesse in questa disciplina, operano al di fuori di ambiti accademici o scolastici: pensiamo ai musei, agli archivi, ai siti archeologici, ma anche ai media, all’editoria e alle forme della divulgazione culturale. La domanda fondamentale che Chiara Asti si e ci pone nell’introduzione al libro è: “Può il gioco essere considerato a tutti gli effetti e con piena dignità culturale uno strumento per il public historian e possono le comunità dei giocatori elaborare attivamente una visione del passato diventando punto di riferimento per la public history ?” A questa domanda rispondono 14 autori con altrettanti saggi che mettono in evidenza, da punti di vista diversi, le straordinarie potenzialità ludiche della storia: la sfida non sta solo nel mettersi alla prova in un gioco di ambientazione storica, ma ancor prima nella sua progettazione, nel game design. Mentre la storia come la si insegna e impara tradizionalmente è strutturata su una linearità di eventi dove i rapporti di causa/effetto appaiono semplicemente ineluttabili, la storia in gioco tesse una trama complessa dove nell’evento (la battaglia di Waterloo, la Guerra fredda ecc.) entrano procedure stocastiche (si parla di “casualità ponderata”), condizioni materiali, decisioni da prendere date certe condizioni. Il gioco non può rinunciare al principio della libertà di azione del giocatore, seppure nel senso di “libertà condizionata” dalle regole che il gioco prescrive. Riccardo Masini parla di “scandalosa libertà” del gioco, poiché qui vale il principio del What if…? Cosa sarebbe potuto accadere se…? Esattamente il contrario di quel principio crociano per cui “la Storia non si fa con i se”. Sul concetto di “storia controfattuale”, ripreso nel libro da diversi autori, si gioca appunto uno dei tratti distintivi del giocare con la storia. Fra “giochi estremi”, di durata e complessità insostenibile se non per giocatori estremi, e giochi la cui giocabilità è alla portata di tutti, le proposte ludiche sono davvero molte e molto ricche: dai board game ai giochi di ruolo, dai videogame ai (Live Action Role Playing), una delle questioni essenziali del rapporto fra gioco e storia, come scrive Mirco Zanoni, è “l’incrocio tra giocabilità e aderenza alla simulazione”: fare in modo che, da una parte l’aderenza all’evento storico e alla complessità dei suoi “fattori in gioco” non uccidano il piacere della giocabilità, dall’altra che la semplificazione del gioco e la libertà di azione dei giocatori renda insignificante l’evento storico rappresentato. È evidente che la prima provocazione della storia in gioco riguarda la didattica della storia, soprattutto nella scuola di base primaria e secondaria; nel libro non mancano i riferimenti e le proposte in questo ambito. Si tratta di “fare storia”, rendere cioè attivo un processo di apprendimento, non affidarlo esclusivamente all’insegnamento. Nel campo delle didattiche disciplinari quella che riguarda la storia è una delle più vivaci: un riferimento essenziale va al lavoro iniziato aimeno trent’anni fa da Antonio Brusa, all’Università di Bari, col suo laboratorio sulla didattica della storia, che ora ha in Internet il suo sito ricco di proposte (www.histoialudens.it). Insomma, la storia non è solo un deposito inerte di memoria che si accumula nel tempo, la memoria è una sorta di”materia prima” che viene lavorata dalla storia, il gioco è uno dei suoi laboratori. Poiché il gioco è finzione, vale qui ciò che Gigi Proietti ha scritto a proposito del teatro: “Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente è falso”. Si potrebbe cominciare con un gioco che richiede speciali capacità investigative: trovare 1 efake news della storia. Ce ne sono molte, non solo sui libri, ma anche nel web.